IL COME ED IL CHE COSA
DI LORENZO DONATI
DICEMBRE 1997
La parola come punto d’unione tra il linguaggio musicale e quello verbale, all’interno del percorso storico ed estetico della musica corale e vocale del secondo Novecento. Il valore espressivo del come rapportato al che cosa si comunica nei processi creativi polifonici.
Sommario
Premessa
La parola e il suono Le radici del suono
Il ritmo del periodo letterario e della frase musicale
La forma e la polifonia
Sacro, profano ed oltre Musica sacra e genere sacro
L’elemento popolare e quello poetico
Oltre la parola
PREMESSA
Le parole scorrono sempre più velocemente e sembrano perdere in alcuni casi il loro valore sonoro, la magia che portano dentro. Il linguaggio si trasforma e si adatta necessariamente alle nuove richieste della società e la comunicazione si sviluppa attraverso canali che abbinano alle parole le immagini. Il messaggio scritto, in particolare quello delle nuove generazioni, diviene sempre più stringato e slegato dal suo valore sonoro.
Viene a crearsi “una società che parla sempre di più e comunica sempre di meno ”, ma questa possibilità di contattare chiunque in qualsiasi momento, toglie valore alle cose che diciamo e soprattutto al suono delle nostre parole. I nostri messaggi divengono dei codici cifrati, dove il significato fagocita le altre possibilità espressive del linguaggio. Il mistero ed il fascino delle vibrazioni, interiore e fisica, di una parola sembrano destinati a svanire.
Nel suo libro Il canto dell’essere Serge Wilfart mette in relazione, giustamente, la voce parlata e la voce cantata, ma soprattutto “l’uomo” come “essere vibratorio il cui strumento è stato deformato, danneggiato o trascurato”. La componente fisica, vibratoria, sonora del canto e del parlato, deve essere riscoperta e riequilibrata da tutti coloro intendano approfondire lo studio della vocalità.
Nel Novecento i musicisti ed i poeti hanno affrontato con maggiore interesse che nel passato il valore fonetico del testo. Il suono ha eroso la parola, cercando di giungere all’essenza di questa. Come una goccia d’acqua solcata da un raggio di luce, la parola ha potuto trasfigurarsi in vari colori.
Questo approfondimento interpretativo del parlato ha in alcuni casi oltrepassato il rapporto con il significato. Il valore del “come” si dice una cosa ha sopravanzato quello del “che cosa” si dice. Sempre Wilfard propone questo tema dal punto di vista scientifico dicendo: “quest’arte del suono costringe a ridimensionare il ruolo della parola nella comunicazione: quando parlo, infatti, la mia voce è portatrice di senso più ancora di quello che dico”.
In quest’ottica potremmo dire che l’interpretazione del testo da parte dei musicisti del Novecento offre certamente un ampio panorama di atteggiamenti compositivi, svincolati dalle tecniche o dagli stili. Si potrà passare dal parlato “puro”, dove il suono della parola rimane invariato, allo <<sprächgesang>> e o alla musica sillabica del neoclassicismo, fino alle opere vocali senza testo, dove rimane solo il suono-coro.
All’interno di questo percorso nella musica corale del secondo Novecento, questo lavoro si pone come obiettivo lo studio ed il confronto delle varie posizioni culturali ed artistiche, che hanno affrontato in maniera critica il rapporto tra il suono di una parola ed il suo significato.
LA PAROLA E IL SUONO
Le radici del suono
Eugenio Montale nel libro Prime alla Scala distingue, pur con rammarico, l’arte verbale dall’arte vocale. Questa distinzione ci pone subito di fronte ad una domanda: perché un musicista deve dare un suono diverso ad una parola, che per sua natura ha già un proprio tempo, una propria intonazione ed una accentuazione? Quali sono le motivazioni che spingono un compositore a musicare un testo? La volontà di riordinare il ritmo e le altezze del linguaggio verbale, la necessità di aggiungere un altro percorso espressivo a quello delle parole, il desiderio di fondere la propria interpretazione sonora con il suono ed il significato di un testo.
Certamente non soddisferanno le prime due motivazioni, ma la terza, cioè la fusione tra due forme espressive diverse, comporta una grande varietà e molteplicità di problemi. In primo luogo il rapporto tra il linguaggio musicale e quello verbale, che non possono trovare delle similitudini perché raggiungono l’animo umano attraverso percorsi differenti.
Ogni parola ha già un proprio suono e non è semplice risalire alle motivazioni che hanno portato alla creazione nei secoli di quel “rumore” collegato ad un preciso significato. Per le parole onomatopeiche sembra più diretta la relazione con il suono, ma per tante altre diventa difficile, ma affascinante, interpretare il percorso che le ha potute generare. Così per un artista, un poeta o un musicista che voglia affrontare le problematiche del rapporto tra il suono ed il significato, non potranno essere accettate, ne l’idea di suono generatore di significato, tantomeno l’idea di significato generatore di suono. Questo perché la relazione tra le due componenti di una parola è già di per se un mistero, lo scontro-unione tra due esperienze diverse, quella uditiva e quella concettuale.
Un esempio interessante che ci consente di affrontare l’analisi di tutte le componenti di una parola è il termine MUSICA. Tralasciando l’analisi delle esperienze che si possono collegare a questo sostantivo, potremmo seguire a ritroso il percorso attraverso le lingue antiche, fino ad arrivare alle remote radici più antiche del termine. Questo però non ci chiarirebbe quanto del suo significato appartenga al suono della parola. La M iniziale, la prima vocale U scura e profonda, la seconda vocale I chiara e “alta” e la terza, quella A che si pone al centro tra la posizione della U e quella della I. Tutto questo è timbro, ma è anche sensazione fisica per chi emette quel suono; è velocità ed è equilibrio tra vocali e consonanti. Quanto sia legato al significato della parola è difficile stabilirlo, certamente non possiamo considerare le parole solo un codice per comunicare con il mondo.
Queste motivazioni portano a pensare che ogni lingua abbia sempre creato la propria musica e che ogni compositore si sia lasciato stimolare dal fraseggio e dalla musicalità di lingue diverse. Claudio Monteverdi avvertiva gli esecutori del Combattimento tra Tancredi e Clorinda ad avere “l’horatione signora e non ancella” e di seguito “”la voce del testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuncia”. Il ritmo delle parole e dei periodi, con questa profonda attenzione del compositore al rapporto con la comprensione del testo, creavano una interpretazione musicale diversa per ogni lingua cantata. Nel Cinquecento nacquero così vari generi stilistici come la <<chanson>> francese, il <<lied>> tedesco, il madrigale o le villanelle alla napoletana e le opere di autori quali Heinrich Isaac, Josquin Des Prez, Orlando Di Lasso, evidenziano nella loro produzione plurilinguistica una grande diversità di stile in relazione alle differenti lingue affrontate.
Con questo non si vuole dimostrare che ogni lingua crei in maniera meccanica il proprio genere musicale, ma certo la parola diviene sorgente di idee per il proprio significato ed essendo interpretata da musicisti anche per il proprio suono. Il termine musica, diventa <<musique>>, <<music>>, <<musik>>, proponendo al compositore un suono, un fraseggio ed un’accentuazione differente. Lo stesso significato avrà interpretazioni sonore diverse in relazione al suono della parola.
Il ritmo del periodo letterario e della frase musicale
La riflessione che Milan Kundera propone nel capitolo intitolato “una frase” del saggio I testamenti traditi, riguarda il rapporto tra il suono ed il significato nella lingua parlata. In quel capitolo lo scrittore affronta la problematica delle traduzioni di un testo letterario e questa riflessione ci dà lo spunto per poter continuare il nostro studio, approfondendo il percorso attraverso i due diversi linguaggi e affrontando il passaggio da un termine singolo ad una frase.
Il musicista contemporaneo che come abbiamo detto si pone di fronte alla parola con un’attenzione particolare alla sua potenzialità fonetica, non tralascia il fraseggio. Questo risente certamente del valore sonoro dei vari termini e difficilmente si potrà riconoscere un percorso accentuativo simile alla musica del passato. Ancor più che nell’antichità il ritmo di un periodo diviene elemento formante e le varie lingue creano idee sonore differenti.
La frase analizzata da Kundera nel suo libro è tratta dal terzo capitolo de “Il Castello” di Kafka. Kundera dimostra con chiarezza come le varie traduzioni francesi di quel periodo letterario limitino tutte la volontà artistica dell’autore. Le scelte ritmiche del testo originale vengono variate od annullate, le ripetizioni di parole, elemento importante della poesia ed in questo caso della prosa, vengono sostituite da sinonimi, nella convinzione che il valore del significato sia più importante del valore sonoro di un termine.
L’attenzione di un grande scrittore, “un romanziere” come si ama definire, verso le potenzialità sonore di una parola e le qualità ritmiche di una frase, evidenziano nuovamente il percorso che il Novecento ha compiuto nei confronti del suono e dell’esperienza uditiva.
Il musicista contemporaneo raramente affronta un testo poetico tradotto ed anche la discutibile prassi della traduzione delle opere del passato, per una più semplice fruizione da parte del pubblico, è quasi definitivamente debellata. La riscoperta e la valorizzazione delle caratteristiche fonetiche di ogni lingua è per quest’epoca assediata dal <<simple englisch>> una grande speranza di varietà e libertà.
In un altro capitolo del suo libro Kundera si chiede, a proposito delle ricerche di Janacek sull’intonazione della lingua parlata: “se la musica è un linguaggio sovranazionale, la semantica delle intonazioni della lingua parlata ha anch’essa un carattere sovranazionale? O non ce l’ha affatto? O ce l’ha solo in certa misura?”.
La ricerca musicale di Janacek si concentra chiaramente sulla prosa, perché la poesia segue leggi, intuizioni e suggestioni diverse. L’autore ceco non è certo il solo ad affrontare tali problematiche, prima Debussy poi Berg musicano testi di prosa nelle loro opere, ma il taglio interpretativo che egli da al rapporto tra il ritmo e l’intonazione di una frase parlata ed il ritmo e l’intonazione di una frase cantata, apre certamente una tendenza estetica nuova per il Novecento.
Le “intonazioni del linguaggio parlato” di cui Janacek lasciò circa un centinaio di esempi, non sono da interpretare come ingenue imitazioni naturalistiche della vita, ma come interessante approfondimento nel rapporto tra il ritmo di un periodo verbale e quello di un periodo musicale. Questi approfondimenti sono una delle strade interpretative che il Novecento ha vissuto nell’affrontare il difficile connubio tra questi due linguaggi.
La forma e la polifonia
L’uso e la creazione dello <<sprächgesange>> da parte di Arnold Shönberg sembrerebbe confermare anche nel compositore viennese, la volontà di cercare una fusione tra le intonazioni verbali e quelle vocali. Ma questa tecnica vocale si differenzia dalla proposta di Janacek, che portava le altezze musicali verso quelle verbali, in questo caso invece, è il parlato che si muove verso il canto. Sembra quasi che la parola, il timbro tipico del linguaggio verbale, voglia ampliare il suo ambito di altezze e non la melodia che desideri limitarsi al registro del parlato.
In Schönberg si nota così un’attenzione particolare al suono della parola, che diventa stimolo alla creazione del suono. Il valore che egli dava all’intonazione del linguaggio verbale verrà evidenziato in moltissime occasioni, la più chiara è l’opera <<Moses und Aron>> dove il rapporto tra parola parlata e parola intonata diverrà addirittura simbolico.
La potenzialità evocativa e misteriosa di una frase è per il Arnold Schönberg momento di genesi di un intera opera. In alcune interviste dichiarava nell’esprimere il suo rapporto interpretativo con una pagina letteraria, che la sola parola di una poesia poteva dargli la visione sonora e quella formale di tutta una composizione.
Questo è un altro momento di grande rilievo estetico e storico per il percorso che questo lavoro intende compiere. La parola portatrice di suono e significato diviene punto d’unione tra due linguaggi diversi, <<stargate>> di dimensioni altrimenti scollegate. Questa possibilità, questo mistero e questo caleidoscopio di stimoli compositivi può divenire come afferma Schönberg un elemento generante l’intera forma di un brano musicale.
Certamente questa affermazione non è risolutiva della questione formale e lo stesso Schönberg aveva a riguardo posizioni diverse. In un’altra intervista infatti afferma, che il problema della forma poteva essere risolto musicando dei brani letterari, perché in essi era già presente una struttura costruttiva. Tale posizione sembra in contraddizione con quella precedente, dato che pare cogliere di un testo solo le potenzialità strutturali. Nel cogliere il contrasto tra le due dichiarazioni dobbiamo però valutare, vista la sua attenzione al suono della parola, come in quegli anni fosse presente il problema della forma di un brano musicale e quindi cogliere la complementarità delle due idee.
L’esaurimento del percorso storico-estetico del sistema tonale era ormai chiaro ed ogni autore sentiva l’esigenza di sviluppare un proprio percorso creativo. Uno dei problemi più evidenti nella composizione di un brano era sicuramente quello formale. La costruzione compositiva svuotata delle tensioni armonico-tonali doveva trovare altri elementi su cui poggiare le grandi arcate della forma. Il suono, le figure musicali, la ricerca timbrica acquistarono quindi un valore maggiore rispetto al passato. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento lo sviluppo delle tecniche compositive sembra concentrarsi da più parti sulla riscoperta della tecnica polifonica.
La polifonia, la pari importanza tra le voci, l’imitazione e la possibilità di un ascolto non soltanto orizzontale e verticale, ma anche obliquo, era stato uno dei cardini della musica modale. I compositori del primo Novecento riprendono tale tecnica compositiva, in molti casi la studiano negli autori antichi, ma soprattutto la “sentono”. Si cominciano a studiare gli autori fiamminghi e quelli italiani, si valuta il rapporto tra la parola e l’intonazione, si analizzano la forma e le strutture contrappuntistiche.
L’idea di una forma che rappresenti ogni brano, come nel mottetto e nel madrigale, rinasce nel Novecento, nello stesso periodo viene studiata e affrontata la problematica dell’importanza dello spazio sonoro. Il suono non è più una sola linea che si evolve, ma può esserne infinite, ogni nota scritta diviene fondamentale e “giusta” in quanto presente. Le linee secondarie svaniscono, perché nella polifonia ciò che è secondario in un percorso può essere primario in un altro.
Ma soprattutto nel primo Novecento viene riscoperto il valore espressivo dello strumento coro. Il Romanticismo non aveva certamente dimenticato la voce, ma la lideristica e l’opera erano basate sulle potenzialità musicali di una voce sola o di una sola per volta. Per questo oltre alla produzione di lideristica polifonica, il coro a cappella aveva perso quella continuità nella produzione che aveva contraddistinto la coralità fino alla fine del Settecento. Pochi, ma fortunatamente grandi autori, scrissero per coro in modo ampio e continuo, tra questi Mendelssohn, Bruckner e Brahms che proseguirono a comporre importanti opere per coro a cappella, fino alla riscoperta dello strumento coro che avvenne nella prima parte del Novecento.
SACRO, PROFANO ED OLTRE
Musica sacra e genere sacro
Se osserviamo il repertorio corale del Novecento possiamo notare che la produzione di musica sacra è andata via via diminuendo nell’opera dei grandi maestri. Le motivazioni non sono da attribuirsi ad uno scarso interesse alle tematiche religiose da parte dei compositori, ma ad un più attento approccio all’approfondimento spirituale. I testi sacri, elaborati da molte generazioni di musicisti, erano divenuti in alcuni casi uno schema formale quasi scontato. L’inevitabile confronto con migliaia di opere del passato rendeva difficile l’interpretazione dei brani sacri più sfruttati come l’ordinarium della messa, la struttura tripartita del Kyrie eleison era divenuta nel tempo un contenitore difficile da “riempire”.
La possibilità moderna di ascoltare musica sacra di varie epoche e stili, possibilità limitata in passato, rende oggi ancor più difficile l’approccio alla creazione di un’idea sonora nuova di questi testi.
Queste difficoltà, unite allo scollamento con il momento liturgico da parte dell’evento musicale, hanno portato nel tempo alla nascita del genere sacro. Come dichiara spesso Romano Pezzati nelle sue lezioni di analisi, al genere sacro appartiene tutto quel repertorio scritto con testi liturgici, ma che non è stato pensato per la cerimonia. La musica sacra invece comprende le opere composte espressamente per una liturgia, come le produzioni religiose del Rinascimento o di Bach. Questa distinzione non valuta il merito artistico dell’opera, ma soltanto il suo percorso creativo e le sue finalità esecutive. Il compositore che scrive una messa per una liturgia non sarà necessariamente più ispirato di un altro che la scrive per un concerto.
L’approfondimento e lo studio delle opere sacre del passato ha portato nella seconda metà del Novecento alla creazione di un nuovo genere che potremmo chiamare musica spirituale. Motivazioni filosofiche, religiose ed artistiche hanno proposto in questi ultimi cinquanta anni la necessità di una nuova attenzione al sentimento religioso. Si è parlato della nascita della “spiritualità laica” e della contaminazione delle religioni cristiane da parte delle culture religiose orientali. Questo lavoro non può approfondire tematiche tanto complesse come queste, ma vuole focalizzare l’attenzione sull’evoluzione artistica della musica spirituale.
Gli artisti che hanno riproposto nella seconda metà del Novecento la tematica dell’arte sacra, lo hanno fatto esprimendo il sentimento religioso in modo molto personale. Molte opere corali di Stravinsky, da Babel al Canticum sacrum, ma anche quelle di Britten, primo tra tutti il <<War Requiem>>, propongono certamente la volontà di ricerca costruttiva ed espressiva di tematiche sacre inconsuete anche tramite la rielaborazione di testi tradizionali.
<<Stimmung>> di Karlheinz Stockausen rappresenta in maniera evidente questa ricerca sul tema della spiritualità. Il compositore, in maniera certamente originale, unisce in un’unica opera i nomi delle divinità delle culture religiose di tutti i tempi. In un articolo del 1974 Hubert Stuppner dichiara: “La funzione” di quelli che Stockausen chiama i nomi magici “è esplicita se si considera la loro ricchezza consonantica rispetto alla uniforme articolazione vocalica”, ma questa funzione musicale avrebbe potuto essere svolta da qualsiasi altro gruppo di parole con medesima struttura fonetica. In questo caso alla caratteristica articolatoria della ricchezza consonantica dei nomi magici che l’analisi individua, c’è sicuramente da affiancare il potere evocativo del significato di tali termini. Lo stesso Stuppner precisa riferendosi alla funzione dei nomi magici: “ma questo condimento aromatico di natura prettamente orientale cela a mala pena una tendenza misticheggiante, che è presente in molte opere di Stockausen”.
La presenza di tutte le religioni e l’elencazione di tutti gli dei, dall’antica Grecia agli aztechi, fino al Dio del monoteismo, pare “l’espressione di un implacabile desiderio d’infinito”, un puro misticismo senza nomi, dove il nome di Dio non è invocato. Stockausen dichiarava: <<Stimmung>>è certamente musica meditativa. Il tempo è abolito. Ci si addentra ascoltando nell’interno del suono, nell’interno dello spettro armonico, nell’interno di una vocale, nell’Interno…”.
Nonostante l’analisi chiara e approfondita proposta da Hubert Stuppner, rimane difficile valutare quanto l’idea di misticismo che ci propone l’ascolto di <<Stimmung>>, sia derivante dalla struttura dell’opera, dalla sua staticità armonica, dalla sua ricerca timbrica sulle vocali e sugli armonici, e quanto invece dal potere evocativo dei nomi magici. Lo stesso compositore sembra voler precisare parlando di tempo, suono e armonia, che l’opera fonda le sue radici strutturali su basi musicali. Il riferimento al significato dei termini religiosi proposti nella composizione pare così ridimensionato e “serializzato” come uno dei tanti parametri costruttivi dell’opera.
Il brano di Stockausen sembra evidenziare l’idea che il sentimento religioso non richieda necessariamente di essere espresso tramite delle parole precise, ma l’opera spirituale si basi esclusivamente sull’approfondimento interiore dell’autore.
Questa posizione sembra confermata dalle opere di alcuni compositori contemporanei, autori di opere il cui titolo fa chiaramente riferimento ad un sentimento religioso, ma che si traduce musicalmente nell’intonazione di vocali e consonanti che non formano ne parole, ne frasi.
L’elemento poetico e quello popolare
L’assenza di una precisa fede religiosa da difendere o proclamare, la spiritualità che si esprime con il suono e nell’organizzazione del suono, sembra poter annullare il valore fondante della parola. Una musica vocale senza testo letterario unirebbe insieme due forme di espressione che storicamente sono state sempre separate: la musica sacra e quella profana.
La distinzione tra i due generi nacque perché la musica sacra era eseguita durante la liturgia, mentre quella profana veniva proposta nelle altre occasioni della vita comune. Questa differenza poco evidente nei primi polifonisti, che sovrapponevano testi sacri e testi profani, divenne con il tempo sempre più evidente. All’inizio del Cinquecento le caratteristiche compositive dei brani scritti per la chiesa erano ormai definite, come in fase di formazione erano il genere del madrigale e della <<chanson>>.
Non mancarono chiaramente “contaminazioni” tra questi stili completamente differenti, lo scambio di materiale tematico tra opere sacre e profane divenne prassi comune. Ma il più interessante punto di unione tra il testo sacro e lo stile profano fu il madrigale spirituale, nel quale i compositori cercarono di affrontare tematiche religiose con lo spirito interpretativo e il rapporto parola-frase tipico del madrigale. Autori come Palestrina, Marenzio, Lasso scrissero vari libri di madrigali spirituali, evidenziando già da allora la necessità di affrontare le tematiche religiose con diversi tagli interpretativi.
La riscoperta della polifonia antica, unita alla prosecuzione della cultura del lied corale, ha portato gli autori del Novecento ad affrontare la musica profana con grande interesse e continuità. Se sembra difficile seguire un percorso evolutivo univoco per la musica sacra, l’ampia produzione di brani su testi poetici rende invece possibile un’analisi più definita degli itinerari stilistici che hanno caratterizzato l’evoluzione della musica profana.
Studiando il repertorio vocale che chiameremo profano solo per una distinzione da quello di argomento religioso, possiamo subito accorgerci che le opere letterarie musicate appartengono a due differenti categorie: testi poetici e testi di carattere popolare. Se per un compositore affrontare brani scritti da poeti poteva rappresentare la continuità con il passato, musicare testi legati alla traduzione popolare era invece una novità. Le scuole nazionali della fine dell’Ottocento e la volontà di studiare organizzazioni sonore e linguistiche diverse da quelle della letteratura, avevano già avviato la strada della rivalutazione del repertorio popolare. Ma è con i primi del Novecento che l’elemento popolare viene valorizzato ed approfondito da studiosi e musicisti.
Bela Bartòk e Zoltan Kodàly affrontarono lo studio sistematico del repertorio popolare ungherese (Corpus musicae popularis hungaricae) prima come studiosi e poi interpretandolo compositivamente, ma anche Debussy e Ravel furono affascinati dalle tematiche popolari. Negli anni a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento l’interesse per le melodie ed i testi derivanti da una tradizione che non fosse quella “classica”, portò alla nascita del genere popolare. Gli stimoli per i compositori erano innumerevoli, molti ritmi e melodie avevano caratteristiche che ben si allineavano alle ricerche stilistiche di quegli anni.
Forse per queste caratteristiche musicali e forse perché i testi letterari creavano minori problematiche interpretative, l’elemento popolare ha assunto all’interno della produzione vocale dei compositori del Novecento un preciso valore. Hanno musicato testi o elaborato melodie autori come Poulenc (<<Chansons francaises>> e <<Chansons à boire>>), Schönberg (<<Drei Volkslieder>> op. 49), Ligeti (<<Idegen foldon>>, <<Bujdosò>>, <<Lakodalmas>>, <<Inaktelki nòtàk>>, <<Matraszentmrei dalok>>, ecc.), Berio (<<Folk songs>>), Britten (<<The Hollyand the Ivy>>, ecc.) e molti altri.
La produzione di musica vocale su testi letterari non è stata affatto soffocata dalla nascita di un nuovo repertorio. L’approfondimento interpretativo del testo è divenuto più libero, proprio perché il rapporto suono-parola si è distaccato da quello della musica popolare. Nell’analizzare queste partiture sono stati spesso riscontrati riferimenti con la musica madrigalistica del Rinascimento ed in molti casi sono proprio i compositori a volersi riallacciare più o meno esplicitamente a quel tipo ti espressività tipica del madrigale.
Nel ciclo <<Cries of London>> di Luciano Berio già il titolo richiama un modello compositivo dell’epoca vittoriana, i <<“Cries of London”>> erano brani nei quali gli autori cercavano di riproporre i suoni e le situazioni delle strade londinesi.
Tra la fine degli anni ottanta ed i primi anni novanta Ligeti fa riferimento alla musica rinascimentale scrivendo un ciclo di sei Madrigali (<<Nonsense madrigals>>). L’ensemble di sei voci per cui compone questi brani è formato da sole voci maschili, con l’utilizzo dei controtenori come avveniva proprio nel Cinquecento.
Anche la scelta del testo può ricollegarsi alla cultura del Cinquecento come per “Il coro delle malmaritate” e “Il coro dei malammogliati” scritti da Luigi Dallapiccola su testi di Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1642), o nel brano “a riveder le stelle” su testo di Dante interpretato dal compositore svedese Ingvar Lidholm.
Gli approfondimenti musicologici sullo stretto rapporto tra il suono e la parola tipico della musica rinascimentale, confermati dagli studi di importanti musicologi come Francesco Luisi, hanno dimostrato come l’intonazione della parola cantata fosse nel Cinquecento molto vicina allo spettro sonoro della lingua parlata. Tali studi rafforzano un’interpretazione ed un’intuizione che i compositori del Novecento avevano proposto musicalmente, dopo la lettura delle opere della musica antica. Il sogno di Janacek di riprodurre il ritmo e la successione delle altezze del linguaggio verbale, sembra realizzato nei madrigali e nelle opere per voce sola di fine Cinquecento.
Lo studio di queste composizioni ha però imposto anche un’altra visione del rapporto tra parola e musica. Nelle figure musicali e nei madrigalismi i musicisti rinascimentali cercavano un contatto più diretto tra la frase musicale ed il significato. Si evidenzia che anche per il Cinquecento la scelta tra la fedeltà al suono della parola o il tentativo di interpretazione musicale del significato, erano due strade distinte. Questo a dimostrazione che tale problematica, affrontata nel capitolo precedente, è presente nella musica vocale da molti secoli.
Oltre la parola
La valorizzazione delle potenzialità fonetiche della parola ha creato le condizioni per la nascita di opere nelle quali le voci cantano su vocali o consonanti che non propongono un testo. I suoni prodotti sono basati su scelte effettuate dal compositore e non hanno collegamenti diretti con alcun significato. In questo caso molti parametri come quello timbrico e quello formale, assumono un’importanza diversa rispetto alle opere che si basano sul contatto con un brano letterario.
Le parole, portatrici di significato, sono sostituite da colori, ritmi, fonemi che creano, forse, come si domandava Kundera un linguaggio “sovranazionale” simile alla musica. Queste composizioni perdendo il rapporto con il “che cosa si dice”, utilizzano la voce non più come punto d’unione tra due linguaggi, ma come uno strumento musicale. Questo non limita le potenzialità effettive dell’apparato vocale, ma ne annulla la caratteristica che lo contraddistingue: essere quella porta tra musica e parola.
Molti compositori nella seconda parte del Novecento sono stati affascinati dalla possibilità di poter sentire il suono del coro “puro”, cioè senza un diretto rapporto con un brano letterario. Ognuno ha risolto in maniera differente le nuove problematiche del rapporto con la forma e con il timbro.
Negli anni sessanta Gyorgy Ligeti con le sue opere <<Aventures>> e <<Nouvelles Aventures>> propone un testo composto di fonemi senza significato. Il trattamento di questo materiale sembra voler riprodurre situazioni musicali presenti in altri brani con testo letterario, come se l’assenza della parola non dovesse pregiudicare le potenzialità delle voci. Ai cantanti si uniscono qui gli strumenti, che hanno almeno per il primo brano del 1962 una presenza alternata, lasciando le voci spesso a cappella. Gli stati d’animo espressi sono molteplici e vari, gli evidenti richiami alla lingua parlata lasciano spesso spazio a nuove sonorità ed è proprio in questi casi che le voci trovano migliore fusione timbrica e formale con gli strumenti.
Negli stessi anni anche altri compositori esplorano queste nuove possibilità sonore ed i musicisti dell’Est e del Nord Europa, forti di una tradizione corale consolidata, propongono alcuni brani per coro a cappella. In <<Rondes>> dell’autore svedese Folke Rabe abbiamo un esempio di tutte quelle opere che vennero create nella volontà di rinnovare un repertorio della coralità cristallizzato alla musica liturgica, a quella popolare ed a quella operistica.
Rabe condividendo l’esperienza musicale di quegli anni, punta l’attenzione su vari aspetti compositivi tra cui quello timbrico. Lo studio sul “colore” delle vocali e delle consonanti usate in modo autonomo e scelte per le loro caratteristiche sonore, è chiarito nelle note all’esecuzione che esplicano in maniera chiara il tipo di suono che ogni lettera dovrà creare. Anche Stockhausen in maniera più sistematica ed esauriente proporrà un lavoro simile in <<Stimmung>> nel 1967, ma in quell’opera il percorso dei fonemi sarà affiancato a quello dei nomi magici e a quello dei testi.
La composizione propone altre scelte innovative per la coralità a cappella come l’utilizzo del tempo cronometrico e l’abbandono del pentagramma come luogo unico dove segnare le variazioni dell’altezza. Un’altra caratteristica che anticipa le scelte effettuate da Stockhausen in <<Stimmung>>, è la possibilità di avere più tempi metronomici nello stesso momento. Rabe pensando il brano per coro propone in quel caso la figura del coordinatore di sezione che dovrà scandire il tempo, mentre Stockausen scrivendo per sei solisti non si pone tale problematica
La parte finale del brano evidenzia il lato ironico di quest’opera che con interessanti e stravaganti collegamenti propone in un brevissimo spazio temporale tutte le esperienze della nuova musica. Il compositore sembra così cosciente della difficoltà per il pubblico di comprendere e apprezzare le nuove strade della ricerca compositiva, che mette in discussione anche la convinzione stessa degli esecutori. Infatti poco prima della fine del brano Rabe propone (ad libitum) che un basso del coro, mostrandosi irato della musica che è costretto a cantare, se ne esca velocemente fuori dal teatro. Quello di Rabe è un gesto “teatrale” che nasce da una profonda revisione e da una chiara valutazione delle esperienze artistiche di tutta l’avanguardia. Il rapporto con il pubblico, con la ricerca e con gli esecutori sono state tematiche molto controverse in tutta la seconda parte del Novecento.
Certamente di questa composizione dobbiamo cogliere tutti gli aspetti musicali e non musicali che hanno portato alla sua genesi. Alcune scelte a noi oggi incomprensibili sotto l’aspetto puramente musicale sono forse scusabili comprendendo la volontà di “svecchiamento” culturale del mondo della coralità. Grazie ad opere come questa è iniziato negli anni sessanta un processo di rinnovamento che ha portato ad affrontare la musica contemporanea, ma anche quella antica, con maggiore consapevolezza.
Altri compositori svedesi o del Nord Europa hanno affrontato la musica vocale senza parole, tra questi Einojuhani Rutavaara, Lars Edlund che negli anni ottanta cita sulla legenda del brano Scherzo proprio Rondes di Folke Rabe. Ma tra tutti Thomas Jennefelt e Anders Hillborg hanno proposto con alcuni loro lavori delle interessanti opere che presentano nuovi rapporti tra il fonema ed il suono.
Nel brano Villarosa Sarialdi di Thomas Jennefelt, l’autore come era accaduto per Ligeti in Aventures è curatore anche del testo letterario. In questo caso il compositore svedese scrive le parole dopo aver composto la musica ed a questa adatta un testo che non fa riferimento a nessuna lingua. I gruppi di sillabe possono essere chiamate parole, perché raggruppate da Jennefelt, ma non hanno nessun significato e non propongono alcun periodo letterario.
<<Ori vidi anoori vidi anori vidiri oriano avi
Anori vidia avidi ano ari.
Veni, veni arisao, sao… Sari, sarialdi, sarialdi villarosa.
Oria. Intrevi falavi no. Animalorio
Arima lotidiante forum, queria et falavino augem, locus, locus vianovo,
sulaterna vexitilla, traudicorum alustari via>> ecc.
Non vi è dubbio che la volontà di scrivere un brano che non avesse percorsi formali esterni a quelli musicali, sia stata una importante motivazione per la scelta di “applicare” il testo successivamente. A quel punto lo stesso Jennefelt dichiara di non aver potuto inserire un brano letterario preesistente, ma di averlo scritto lui stesso seguendo il percorso già tracciato dalla musica.
Viene da chiedersi se il compositore avrebbe potuto compiere un passo ancor più innovativo nell’ideazione di questa e di altre composizioni dello stesso ciclo, lasciando il brano senza parole invece di scrivere quel testo in simil-latino che pare contraddire le ricerche del percorso musicale.
Ancor più interessante sarebbe a questo punto, se i compositori si fidassero dei poeti, che l’autore della musica lasciasse l’opera senza parole e ne chiedesse ai vari scrittori un’interpretazione letteraria. Questa inversione di ruoli sarebbe una novità interessante nel panorama della musica “colta”, mentre è una costante ormai da molti anni nel mondo della musica leggera.
La paura che il significato delle parole, più che quello dei suoni, possa dare il taglio interpretativo ad un’opera è per un musicista che scrive musica vocale una costante. La consapevolezza che lo stesso brano con due testi diversi evochi opposte immagini e differenti pensieri, se ha dato ai compositori del passato la possibilità di “riciclare” brani in varie occasioni, pone l’artista moderno di fronte alla propria debolezza comunicativa.
Quando il fonema non è più portatore di significato deve divenire “più suono” ed in quel caso il compositore ha l'obbligo di chiarire che tipo di suono dovrà essere prodotto, come abbiamo già notato nei brani di Rabe e di Stockhausen. Nel momento in cui un musicista non fa riferimento ad una certa lingua, è il caso di <<Villarosa Sarialdi>>, il colore che certe vocali o consonanti potranno avere non è chiarito dal contesto linguistico. Per cui il compositore dovrà specificare su ogni lettera, il tipo di suono che desidera ottenere ed allora la prima O del primo accordo, sarà aperta o chiusa, scura o chiara.
Quella che abbiamo notato come una mancanza dell’autore, cioè l’assenza di riferimenti fonetici che chiariscano le modalità di emissione del testo, è invece molto curata in un’altra importantissima opera per coro a cappella. Il valore di questo brano nasce proprio dallo studio approfondito che il compositore Handres Hilborg ha compiuto sulle caratteristiche di ogni vocale. Il brano scritto nel 1983 chiarisce già dal titolo la volontà del compositore, <<muo……oum>> è infatti un percorso fonetico dalla vocale U con prevalenza di armonici bassi, alla vocale I che invece ha una prevalenza di armonici alti. Come in <<Stimmung>> il gioco timbrico sugli armonici viene utilizzato in maniera espressiva e diventa fondamentale la chiara pronuncia delle vocali. Anche la staticità armonica sembra riproporre un percorso simile a quello del brano di Stockhausen e nasce certamente dalla volontà di rendere percepibili gli armonici prodotti dalle voci, che essendo dinamicamente più deboli dei suoni fondamentali sarebbero soffocati all’interno di un percorso armonico troppo vario.
Il brano inizia sul SI bemolle cantato dalle quattro parti dei soprani mentre le altre sezioni, sempre divise in quattro parti, iniziano sulla loro nota più grave il gioco timbrico del graduale passaggio dalla vocale U fino alla I e viceversa. La nota “grave” richiesta dal compositore sarà scelta singolarmente da ogni cantante secondo le caratteristiche della propria voce, in modo da mettere in evidenza con maggiore facilità i suoni armonici che il passaggio da una vocale all’altra produce. Ogni voce procederà nelle mutazioni delle vocali sempre con lo stesso schema, quello evidenziato già dal titolo, ma partendo in maniera sfalsata questi armonici non verranno mai sovrapposti ad altri simili. Questa scelta crea una staticità dell’aspetto timbrico che nasce dalla organizzazione della varietà e che si alterna, si sovrappone e si scontra con la staticità armonica e con quella ritmica. La novità armonica all’interno di una sezione viene sempre esposta inizialmente tramite una nota lunga con la M e poi ribattuta in quartine con la sillaba “la”. Questa omogeneità dell’articolazione più veloce sempre cantata sulla vocale A, va a sua volta a sovrapporsi o alternarsi con il percorso del <<muo……oum>> che è più statico ritmicamente, ma timbricamente più vario.
Nella parte finale del brano la staticità sembra rompersi e all’interno dei tre percorsi ritmico, armonico e timbrico vengono presentate alcune varianti. Il ritmo delle quartine è affiancato e sostituito dalle quintine e dalle terzine, il percorso diatonico è ampliato con la presenza dei quarti di tono e quello timbrico viene interrotto e variato nella successione delle vocali. A questo punto un nuovo suono, il fischio, viene a polarizzare l’attenzione timbrica. Già presentato anche se solo con una breve apparizione alle battute 36-39 il fischio giunge ad interrompere la circolarità della forma, che il brano sembra esprimere con le continue sovrapposizioni di elementi musicali statici. Questo timbro che nasce come la voce dalla bocca, si impone unificando i suoni dei contralti (tranne i contralti quarti) e dei tenori su un SI naturale acuto, mentre i bassi divisi ad otto parti formano un cluster nel registro grave.
Le stesse lente modulazione tra le vocali e la M le ritroviamo anche nel brano Oremus dell’estone Urmas Sisask, ma in questo caso la ciclicità delle modulazioni vocaliche non viene sospesa da un elemento esterno come il fischio. Le cinque parti di cui si compone Oremus hanno un progetto formale più semplice del brano di Hilborg, perché i percorsi che il compositore estone propone sono diversi. L’armonia e la melodia sono basate su cinque suoni (FA# - SOL# - LA - DO# - RE) che vengono a formare agglomerati sempre nuovi, ma sempre simili e riconoscibili. Il ritmo di questi passaggi è oltremodo semplice, infatti possiamo avere due sole possibilità all’interno dell’impostazione in due quarti, il battere o il levare.
Ma questa estrema semplificazione di alcune importanti caratteristiche della composizione musicale a cosa vuole giungere?
Probabilmente, pur non volendo appesantire di significato il titolo della composizione, il brano pur essendo privo di un testo che richiami le Sacre Scritture vuole proporre un’idea di musica meditativa e di preghiera. Sisask opta per la valorizzazione dell’intensità e del scelta della tessitura vocale tramite la staticità armonico-ritmica, lo stesso procedimento proposto da Stockhausen in <<Stimmung>> raggiunto qui tramite la semplificazione del materiale. Non sarà difficile trovare altre similitudini tra i due brani, come riconoscere che la struttura armonica (verticale) e quella orizzontale siano molto simili, perché basate entrambe su cinque note.
In Stimmung In Oremus
Sib - DO - RE - FA – Lab FA# - SOL# - LA - DO# - RE
La struttura formale delle due composizioni si differenzia in maniera sensibile, perché Stockhausen radicalizza l’idea di staticità creando un continum unico, che viene articolato al suo interno da vari elementi (nomi magici, ritmi delle mutazioni vocaliche, testi). Sisask invece divide il brano in cinque parti che propongono un percorso formale molto chiaro che possiamo riassumere in questo schema:
Timbro: Dinamica: Schema ritmico ripetuto Registro vocale:
I PARTE
consonante M pp cambio armonico ogni grave
II PARTE
mutazioni delle vocali. Dal p crescendo al mf + + + + medio
III PARTE
mutazioni delle vocali p + + + + + medio
IV PARTE
mutazioni delle vocali. Dal p crescendo al ff + + + + dal grave all’acuto
V PARTE
consonante M pp + + + + + grave
Anche in Oremus il compositore, come abbiamo già notato per il brano di Hilborg, pone la consonante M all’inizio ed alla fine del percorso di mutazione delle vocali. Ma in questo caso essendo il brano scritto per coro a quattro voci miste, la successione degli armonici prodotti con il movimento da una vocale all’altra non sarà percepibile, perché ogni corista sarà libero di “gestire” il proprio percorso di mutazione timbrica.
Questa libertà non deve avere però soddisfatto l’autore che in esecuzioni recenti ha proposto dei cambiamenti inserendo delle vocali precise in momenti specifici del brano.
Una somiglianza con la tecnica della libera mutazione vocalica usata da Sisask in Oremus possiamo riscontrarla anche in un autore italiano molto attento alla produzione ed all’evoluzione della coralità. Romano Pezzati nei suoi ultimi brani per coro a cappella lascia i cantanti liberi di vocalizzare e non utilizza nessun testo, né propone alcun percorso timbrico delle vocali. La libertà dei singoli coristi non crea, come si potrebbe inizialmente pensare, una disomogeneità sonora della composizione, perché come accadeva in Sisask, i brani sono pensati per coro e quindi si prevede che il numero delle voci che cantano la stessa parte, riesca ad amalgamare il timbro della sezione. Inoltre quello del colore vocale è l’unico elemento lasciato come variabile, mentre gli altri parametri compositivi sono ben precisati nelle partiture. Il brano “Stella Matutina” per doppio coro del 1992, ha un percorso formale molto preciso che viene realizzato tramite la contrappuntistica del canone.
Nel 1996 con la composizione “Stella Nova” per sei voci, Pezzati pur lasciando sempre libero l’esecutore di vocalizzare, propone delle scelte diverse. Le sei parti due soprani, due contralti, tenore e basso sono scritte sfruttando il registro acuto della voce, per cui l’allargamento dello spazio armonico viene prevalentemente ad avere una direzione. La tecnica del canone è sostituita da un’imitazione libera tra le voci che lascia maggiore libertà di intensificazione delle figure e delle dinamiche. Anche il tempo non è costante come nel brano “Stella Matutina” e si passa da = 60 (Tempo I) a = = + di 60 (Tempo II) tornando poi al Tempo I, fino ad arrivare = 90 (Tempo III) che rallenterà fino al Tempo I = 60.
Nelle due composizioni Pezzati è consapevole della volontà di lasciare libertà agli esecutori all’interno di un’organizzazione formale molto precisa. Punto fermo delle due opere è la mancanza di un testo e la libera vocalizzazione dei coristi..
Lo stesso tipo di procedimento compositivo che unisce la tecnica dell’imitazione di memoria fiamminga e la ricerca timbrica delle ultime generazioni, che utilizza sovente la figura ritmica delle acciaccature alternate a note lunghe, possiamo ritrovarlo in un altro brano che Romano Pezzati scrisse negli anni settanta.
Est silentium in caelo per coro maschile ad otto parti è scritto senza un testo letterario anche se i riferimenti poetici sono innumerevoli data la dedica del brano “In memoriam Pablo Neruda”. Le voci cantano su alcune sillabe o vocali scelte dal compositore: IU – IUM - I - O – E’ – EN – A – O – IO ecc. Analizzando tra queste, quelle utilizzate con maggiore frequenza, si può ricostruire parte della struttura sillabica del brano Est sIlENtIUM In caelO, in particolare si possono riconoscere le vocali ed i gruppi di vocali. Come abbiamo già notato nel brano di Hilborg, il titolo diviene la composizione stessa, perché i suoni che verranno cantati sono già presenti nell’intestazione. Tale caratteristica oltre a dare unità “metafisica” all’opera, rende unitario il percorso timbrico e spesso anche quello formale. In questi casi il rapporto tra il “come” (suono) ed il “che cosa” (significato) si fa più stretto e forte.
L’opera di Pezzati è dedicata a Pablo Neruda di cui il compositore riporta al termine del brano alcuni versi tratti da “Fine del mondo” e “Il canto generale”. I testi riportati evocano varie immagini sul silenzio e chiariscono in maniera illuminante la volontà espressiva del compositore. Pezzati fa terminare il brano con un lunghissimo accordo a bocca chiusa, sul quale si inserisce la parte dei baritoni primi ad intonare le vocali I – E – O (In cAElO). Probabilmente pur non utilizzando il testo di Neruda, ma lasciandolo al fianco della musica come elemento germinante la composizione, Pezzati vuole andare oltre le parole e non può quindi musicarle, deve andare verso il senso intimo del testo del poeta che scrive “ho molto da tacere – datemi il silenzio, l’acqua, la speranza”.
DI LORENZO DONATI
DICEMBRE 1997
La parola come punto d’unione tra il linguaggio musicale e quello verbale, all’interno del percorso storico ed estetico della musica corale e vocale del secondo Novecento. Il valore espressivo del come rapportato al che cosa si comunica nei processi creativi polifonici.
Sommario
Premessa
La parola e il suono Le radici del suono
Il ritmo del periodo letterario e della frase musicale
La forma e la polifonia
Sacro, profano ed oltre Musica sacra e genere sacro
L’elemento popolare e quello poetico
Oltre la parola
PREMESSA
Le parole scorrono sempre più velocemente e sembrano perdere in alcuni casi il loro valore sonoro, la magia che portano dentro. Il linguaggio si trasforma e si adatta necessariamente alle nuove richieste della società e la comunicazione si sviluppa attraverso canali che abbinano alle parole le immagini. Il messaggio scritto, in particolare quello delle nuove generazioni, diviene sempre più stringato e slegato dal suo valore sonoro.
Viene a crearsi “una società che parla sempre di più e comunica sempre di meno ”, ma questa possibilità di contattare chiunque in qualsiasi momento, toglie valore alle cose che diciamo e soprattutto al suono delle nostre parole. I nostri messaggi divengono dei codici cifrati, dove il significato fagocita le altre possibilità espressive del linguaggio. Il mistero ed il fascino delle vibrazioni, interiore e fisica, di una parola sembrano destinati a svanire.
Nel suo libro Il canto dell’essere Serge Wilfart mette in relazione, giustamente, la voce parlata e la voce cantata, ma soprattutto “l’uomo” come “essere vibratorio il cui strumento è stato deformato, danneggiato o trascurato”. La componente fisica, vibratoria, sonora del canto e del parlato, deve essere riscoperta e riequilibrata da tutti coloro intendano approfondire lo studio della vocalità.
Nel Novecento i musicisti ed i poeti hanno affrontato con maggiore interesse che nel passato il valore fonetico del testo. Il suono ha eroso la parola, cercando di giungere all’essenza di questa. Come una goccia d’acqua solcata da un raggio di luce, la parola ha potuto trasfigurarsi in vari colori.
Questo approfondimento interpretativo del parlato ha in alcuni casi oltrepassato il rapporto con il significato. Il valore del “come” si dice una cosa ha sopravanzato quello del “che cosa” si dice. Sempre Wilfard propone questo tema dal punto di vista scientifico dicendo: “quest’arte del suono costringe a ridimensionare il ruolo della parola nella comunicazione: quando parlo, infatti, la mia voce è portatrice di senso più ancora di quello che dico”.
In quest’ottica potremmo dire che l’interpretazione del testo da parte dei musicisti del Novecento offre certamente un ampio panorama di atteggiamenti compositivi, svincolati dalle tecniche o dagli stili. Si potrà passare dal parlato “puro”, dove il suono della parola rimane invariato, allo <<sprächgesang>> e o alla musica sillabica del neoclassicismo, fino alle opere vocali senza testo, dove rimane solo il suono-coro.
All’interno di questo percorso nella musica corale del secondo Novecento, questo lavoro si pone come obiettivo lo studio ed il confronto delle varie posizioni culturali ed artistiche, che hanno affrontato in maniera critica il rapporto tra il suono di una parola ed il suo significato.
LA PAROLA E IL SUONO
Le radici del suono
Eugenio Montale nel libro Prime alla Scala distingue, pur con rammarico, l’arte verbale dall’arte vocale. Questa distinzione ci pone subito di fronte ad una domanda: perché un musicista deve dare un suono diverso ad una parola, che per sua natura ha già un proprio tempo, una propria intonazione ed una accentuazione? Quali sono le motivazioni che spingono un compositore a musicare un testo? La volontà di riordinare il ritmo e le altezze del linguaggio verbale, la necessità di aggiungere un altro percorso espressivo a quello delle parole, il desiderio di fondere la propria interpretazione sonora con il suono ed il significato di un testo.
Certamente non soddisferanno le prime due motivazioni, ma la terza, cioè la fusione tra due forme espressive diverse, comporta una grande varietà e molteplicità di problemi. In primo luogo il rapporto tra il linguaggio musicale e quello verbale, che non possono trovare delle similitudini perché raggiungono l’animo umano attraverso percorsi differenti.
Ogni parola ha già un proprio suono e non è semplice risalire alle motivazioni che hanno portato alla creazione nei secoli di quel “rumore” collegato ad un preciso significato. Per le parole onomatopeiche sembra più diretta la relazione con il suono, ma per tante altre diventa difficile, ma affascinante, interpretare il percorso che le ha potute generare. Così per un artista, un poeta o un musicista che voglia affrontare le problematiche del rapporto tra il suono ed il significato, non potranno essere accettate, ne l’idea di suono generatore di significato, tantomeno l’idea di significato generatore di suono. Questo perché la relazione tra le due componenti di una parola è già di per se un mistero, lo scontro-unione tra due esperienze diverse, quella uditiva e quella concettuale.
Un esempio interessante che ci consente di affrontare l’analisi di tutte le componenti di una parola è il termine MUSICA. Tralasciando l’analisi delle esperienze che si possono collegare a questo sostantivo, potremmo seguire a ritroso il percorso attraverso le lingue antiche, fino ad arrivare alle remote radici più antiche del termine. Questo però non ci chiarirebbe quanto del suo significato appartenga al suono della parola. La M iniziale, la prima vocale U scura e profonda, la seconda vocale I chiara e “alta” e la terza, quella A che si pone al centro tra la posizione della U e quella della I. Tutto questo è timbro, ma è anche sensazione fisica per chi emette quel suono; è velocità ed è equilibrio tra vocali e consonanti. Quanto sia legato al significato della parola è difficile stabilirlo, certamente non possiamo considerare le parole solo un codice per comunicare con il mondo.
Queste motivazioni portano a pensare che ogni lingua abbia sempre creato la propria musica e che ogni compositore si sia lasciato stimolare dal fraseggio e dalla musicalità di lingue diverse. Claudio Monteverdi avvertiva gli esecutori del Combattimento tra Tancredi e Clorinda ad avere “l’horatione signora e non ancella” e di seguito “”la voce del testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuncia”. Il ritmo delle parole e dei periodi, con questa profonda attenzione del compositore al rapporto con la comprensione del testo, creavano una interpretazione musicale diversa per ogni lingua cantata. Nel Cinquecento nacquero così vari generi stilistici come la <<chanson>> francese, il <<lied>> tedesco, il madrigale o le villanelle alla napoletana e le opere di autori quali Heinrich Isaac, Josquin Des Prez, Orlando Di Lasso, evidenziano nella loro produzione plurilinguistica una grande diversità di stile in relazione alle differenti lingue affrontate.
Con questo non si vuole dimostrare che ogni lingua crei in maniera meccanica il proprio genere musicale, ma certo la parola diviene sorgente di idee per il proprio significato ed essendo interpretata da musicisti anche per il proprio suono. Il termine musica, diventa <<musique>>, <<music>>, <<musik>>, proponendo al compositore un suono, un fraseggio ed un’accentuazione differente. Lo stesso significato avrà interpretazioni sonore diverse in relazione al suono della parola.
Il ritmo del periodo letterario e della frase musicale
La riflessione che Milan Kundera propone nel capitolo intitolato “una frase” del saggio I testamenti traditi, riguarda il rapporto tra il suono ed il significato nella lingua parlata. In quel capitolo lo scrittore affronta la problematica delle traduzioni di un testo letterario e questa riflessione ci dà lo spunto per poter continuare il nostro studio, approfondendo il percorso attraverso i due diversi linguaggi e affrontando il passaggio da un termine singolo ad una frase.
Il musicista contemporaneo che come abbiamo detto si pone di fronte alla parola con un’attenzione particolare alla sua potenzialità fonetica, non tralascia il fraseggio. Questo risente certamente del valore sonoro dei vari termini e difficilmente si potrà riconoscere un percorso accentuativo simile alla musica del passato. Ancor più che nell’antichità il ritmo di un periodo diviene elemento formante e le varie lingue creano idee sonore differenti.
La frase analizzata da Kundera nel suo libro è tratta dal terzo capitolo de “Il Castello” di Kafka. Kundera dimostra con chiarezza come le varie traduzioni francesi di quel periodo letterario limitino tutte la volontà artistica dell’autore. Le scelte ritmiche del testo originale vengono variate od annullate, le ripetizioni di parole, elemento importante della poesia ed in questo caso della prosa, vengono sostituite da sinonimi, nella convinzione che il valore del significato sia più importante del valore sonoro di un termine.
L’attenzione di un grande scrittore, “un romanziere” come si ama definire, verso le potenzialità sonore di una parola e le qualità ritmiche di una frase, evidenziano nuovamente il percorso che il Novecento ha compiuto nei confronti del suono e dell’esperienza uditiva.
Il musicista contemporaneo raramente affronta un testo poetico tradotto ed anche la discutibile prassi della traduzione delle opere del passato, per una più semplice fruizione da parte del pubblico, è quasi definitivamente debellata. La riscoperta e la valorizzazione delle caratteristiche fonetiche di ogni lingua è per quest’epoca assediata dal <<simple englisch>> una grande speranza di varietà e libertà.
In un altro capitolo del suo libro Kundera si chiede, a proposito delle ricerche di Janacek sull’intonazione della lingua parlata: “se la musica è un linguaggio sovranazionale, la semantica delle intonazioni della lingua parlata ha anch’essa un carattere sovranazionale? O non ce l’ha affatto? O ce l’ha solo in certa misura?”.
La ricerca musicale di Janacek si concentra chiaramente sulla prosa, perché la poesia segue leggi, intuizioni e suggestioni diverse. L’autore ceco non è certo il solo ad affrontare tali problematiche, prima Debussy poi Berg musicano testi di prosa nelle loro opere, ma il taglio interpretativo che egli da al rapporto tra il ritmo e l’intonazione di una frase parlata ed il ritmo e l’intonazione di una frase cantata, apre certamente una tendenza estetica nuova per il Novecento.
Le “intonazioni del linguaggio parlato” di cui Janacek lasciò circa un centinaio di esempi, non sono da interpretare come ingenue imitazioni naturalistiche della vita, ma come interessante approfondimento nel rapporto tra il ritmo di un periodo verbale e quello di un periodo musicale. Questi approfondimenti sono una delle strade interpretative che il Novecento ha vissuto nell’affrontare il difficile connubio tra questi due linguaggi.
La forma e la polifonia
L’uso e la creazione dello <<sprächgesange>> da parte di Arnold Shönberg sembrerebbe confermare anche nel compositore viennese, la volontà di cercare una fusione tra le intonazioni verbali e quelle vocali. Ma questa tecnica vocale si differenzia dalla proposta di Janacek, che portava le altezze musicali verso quelle verbali, in questo caso invece, è il parlato che si muove verso il canto. Sembra quasi che la parola, il timbro tipico del linguaggio verbale, voglia ampliare il suo ambito di altezze e non la melodia che desideri limitarsi al registro del parlato.
In Schönberg si nota così un’attenzione particolare al suono della parola, che diventa stimolo alla creazione del suono. Il valore che egli dava all’intonazione del linguaggio verbale verrà evidenziato in moltissime occasioni, la più chiara è l’opera <<Moses und Aron>> dove il rapporto tra parola parlata e parola intonata diverrà addirittura simbolico.
La potenzialità evocativa e misteriosa di una frase è per il Arnold Schönberg momento di genesi di un intera opera. In alcune interviste dichiarava nell’esprimere il suo rapporto interpretativo con una pagina letteraria, che la sola parola di una poesia poteva dargli la visione sonora e quella formale di tutta una composizione.
Questo è un altro momento di grande rilievo estetico e storico per il percorso che questo lavoro intende compiere. La parola portatrice di suono e significato diviene punto d’unione tra due linguaggi diversi, <<stargate>> di dimensioni altrimenti scollegate. Questa possibilità, questo mistero e questo caleidoscopio di stimoli compositivi può divenire come afferma Schönberg un elemento generante l’intera forma di un brano musicale.
Certamente questa affermazione non è risolutiva della questione formale e lo stesso Schönberg aveva a riguardo posizioni diverse. In un’altra intervista infatti afferma, che il problema della forma poteva essere risolto musicando dei brani letterari, perché in essi era già presente una struttura costruttiva. Tale posizione sembra in contraddizione con quella precedente, dato che pare cogliere di un testo solo le potenzialità strutturali. Nel cogliere il contrasto tra le due dichiarazioni dobbiamo però valutare, vista la sua attenzione al suono della parola, come in quegli anni fosse presente il problema della forma di un brano musicale e quindi cogliere la complementarità delle due idee.
L’esaurimento del percorso storico-estetico del sistema tonale era ormai chiaro ed ogni autore sentiva l’esigenza di sviluppare un proprio percorso creativo. Uno dei problemi più evidenti nella composizione di un brano era sicuramente quello formale. La costruzione compositiva svuotata delle tensioni armonico-tonali doveva trovare altri elementi su cui poggiare le grandi arcate della forma. Il suono, le figure musicali, la ricerca timbrica acquistarono quindi un valore maggiore rispetto al passato. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento lo sviluppo delle tecniche compositive sembra concentrarsi da più parti sulla riscoperta della tecnica polifonica.
La polifonia, la pari importanza tra le voci, l’imitazione e la possibilità di un ascolto non soltanto orizzontale e verticale, ma anche obliquo, era stato uno dei cardini della musica modale. I compositori del primo Novecento riprendono tale tecnica compositiva, in molti casi la studiano negli autori antichi, ma soprattutto la “sentono”. Si cominciano a studiare gli autori fiamminghi e quelli italiani, si valuta il rapporto tra la parola e l’intonazione, si analizzano la forma e le strutture contrappuntistiche.
L’idea di una forma che rappresenti ogni brano, come nel mottetto e nel madrigale, rinasce nel Novecento, nello stesso periodo viene studiata e affrontata la problematica dell’importanza dello spazio sonoro. Il suono non è più una sola linea che si evolve, ma può esserne infinite, ogni nota scritta diviene fondamentale e “giusta” in quanto presente. Le linee secondarie svaniscono, perché nella polifonia ciò che è secondario in un percorso può essere primario in un altro.
Ma soprattutto nel primo Novecento viene riscoperto il valore espressivo dello strumento coro. Il Romanticismo non aveva certamente dimenticato la voce, ma la lideristica e l’opera erano basate sulle potenzialità musicali di una voce sola o di una sola per volta. Per questo oltre alla produzione di lideristica polifonica, il coro a cappella aveva perso quella continuità nella produzione che aveva contraddistinto la coralità fino alla fine del Settecento. Pochi, ma fortunatamente grandi autori, scrissero per coro in modo ampio e continuo, tra questi Mendelssohn, Bruckner e Brahms che proseguirono a comporre importanti opere per coro a cappella, fino alla riscoperta dello strumento coro che avvenne nella prima parte del Novecento.
SACRO, PROFANO ED OLTRE
Musica sacra e genere sacro
Se osserviamo il repertorio corale del Novecento possiamo notare che la produzione di musica sacra è andata via via diminuendo nell’opera dei grandi maestri. Le motivazioni non sono da attribuirsi ad uno scarso interesse alle tematiche religiose da parte dei compositori, ma ad un più attento approccio all’approfondimento spirituale. I testi sacri, elaborati da molte generazioni di musicisti, erano divenuti in alcuni casi uno schema formale quasi scontato. L’inevitabile confronto con migliaia di opere del passato rendeva difficile l’interpretazione dei brani sacri più sfruttati come l’ordinarium della messa, la struttura tripartita del Kyrie eleison era divenuta nel tempo un contenitore difficile da “riempire”.
La possibilità moderna di ascoltare musica sacra di varie epoche e stili, possibilità limitata in passato, rende oggi ancor più difficile l’approccio alla creazione di un’idea sonora nuova di questi testi.
Queste difficoltà, unite allo scollamento con il momento liturgico da parte dell’evento musicale, hanno portato nel tempo alla nascita del genere sacro. Come dichiara spesso Romano Pezzati nelle sue lezioni di analisi, al genere sacro appartiene tutto quel repertorio scritto con testi liturgici, ma che non è stato pensato per la cerimonia. La musica sacra invece comprende le opere composte espressamente per una liturgia, come le produzioni religiose del Rinascimento o di Bach. Questa distinzione non valuta il merito artistico dell’opera, ma soltanto il suo percorso creativo e le sue finalità esecutive. Il compositore che scrive una messa per una liturgia non sarà necessariamente più ispirato di un altro che la scrive per un concerto.
L’approfondimento e lo studio delle opere sacre del passato ha portato nella seconda metà del Novecento alla creazione di un nuovo genere che potremmo chiamare musica spirituale. Motivazioni filosofiche, religiose ed artistiche hanno proposto in questi ultimi cinquanta anni la necessità di una nuova attenzione al sentimento religioso. Si è parlato della nascita della “spiritualità laica” e della contaminazione delle religioni cristiane da parte delle culture religiose orientali. Questo lavoro non può approfondire tematiche tanto complesse come queste, ma vuole focalizzare l’attenzione sull’evoluzione artistica della musica spirituale.
Gli artisti che hanno riproposto nella seconda metà del Novecento la tematica dell’arte sacra, lo hanno fatto esprimendo il sentimento religioso in modo molto personale. Molte opere corali di Stravinsky, da Babel al Canticum sacrum, ma anche quelle di Britten, primo tra tutti il <<War Requiem>>, propongono certamente la volontà di ricerca costruttiva ed espressiva di tematiche sacre inconsuete anche tramite la rielaborazione di testi tradizionali.
<<Stimmung>> di Karlheinz Stockausen rappresenta in maniera evidente questa ricerca sul tema della spiritualità. Il compositore, in maniera certamente originale, unisce in un’unica opera i nomi delle divinità delle culture religiose di tutti i tempi. In un articolo del 1974 Hubert Stuppner dichiara: “La funzione” di quelli che Stockausen chiama i nomi magici “è esplicita se si considera la loro ricchezza consonantica rispetto alla uniforme articolazione vocalica”, ma questa funzione musicale avrebbe potuto essere svolta da qualsiasi altro gruppo di parole con medesima struttura fonetica. In questo caso alla caratteristica articolatoria della ricchezza consonantica dei nomi magici che l’analisi individua, c’è sicuramente da affiancare il potere evocativo del significato di tali termini. Lo stesso Stuppner precisa riferendosi alla funzione dei nomi magici: “ma questo condimento aromatico di natura prettamente orientale cela a mala pena una tendenza misticheggiante, che è presente in molte opere di Stockausen”.
La presenza di tutte le religioni e l’elencazione di tutti gli dei, dall’antica Grecia agli aztechi, fino al Dio del monoteismo, pare “l’espressione di un implacabile desiderio d’infinito”, un puro misticismo senza nomi, dove il nome di Dio non è invocato. Stockausen dichiarava: <<Stimmung>>è certamente musica meditativa. Il tempo è abolito. Ci si addentra ascoltando nell’interno del suono, nell’interno dello spettro armonico, nell’interno di una vocale, nell’Interno…”.
Nonostante l’analisi chiara e approfondita proposta da Hubert Stuppner, rimane difficile valutare quanto l’idea di misticismo che ci propone l’ascolto di <<Stimmung>>, sia derivante dalla struttura dell’opera, dalla sua staticità armonica, dalla sua ricerca timbrica sulle vocali e sugli armonici, e quanto invece dal potere evocativo dei nomi magici. Lo stesso compositore sembra voler precisare parlando di tempo, suono e armonia, che l’opera fonda le sue radici strutturali su basi musicali. Il riferimento al significato dei termini religiosi proposti nella composizione pare così ridimensionato e “serializzato” come uno dei tanti parametri costruttivi dell’opera.
Il brano di Stockausen sembra evidenziare l’idea che il sentimento religioso non richieda necessariamente di essere espresso tramite delle parole precise, ma l’opera spirituale si basi esclusivamente sull’approfondimento interiore dell’autore.
Questa posizione sembra confermata dalle opere di alcuni compositori contemporanei, autori di opere il cui titolo fa chiaramente riferimento ad un sentimento religioso, ma che si traduce musicalmente nell’intonazione di vocali e consonanti che non formano ne parole, ne frasi.
L’elemento poetico e quello popolare
L’assenza di una precisa fede religiosa da difendere o proclamare, la spiritualità che si esprime con il suono e nell’organizzazione del suono, sembra poter annullare il valore fondante della parola. Una musica vocale senza testo letterario unirebbe insieme due forme di espressione che storicamente sono state sempre separate: la musica sacra e quella profana.
La distinzione tra i due generi nacque perché la musica sacra era eseguita durante la liturgia, mentre quella profana veniva proposta nelle altre occasioni della vita comune. Questa differenza poco evidente nei primi polifonisti, che sovrapponevano testi sacri e testi profani, divenne con il tempo sempre più evidente. All’inizio del Cinquecento le caratteristiche compositive dei brani scritti per la chiesa erano ormai definite, come in fase di formazione erano il genere del madrigale e della <<chanson>>.
Non mancarono chiaramente “contaminazioni” tra questi stili completamente differenti, lo scambio di materiale tematico tra opere sacre e profane divenne prassi comune. Ma il più interessante punto di unione tra il testo sacro e lo stile profano fu il madrigale spirituale, nel quale i compositori cercarono di affrontare tematiche religiose con lo spirito interpretativo e il rapporto parola-frase tipico del madrigale. Autori come Palestrina, Marenzio, Lasso scrissero vari libri di madrigali spirituali, evidenziando già da allora la necessità di affrontare le tematiche religiose con diversi tagli interpretativi.
La riscoperta della polifonia antica, unita alla prosecuzione della cultura del lied corale, ha portato gli autori del Novecento ad affrontare la musica profana con grande interesse e continuità. Se sembra difficile seguire un percorso evolutivo univoco per la musica sacra, l’ampia produzione di brani su testi poetici rende invece possibile un’analisi più definita degli itinerari stilistici che hanno caratterizzato l’evoluzione della musica profana.
Studiando il repertorio vocale che chiameremo profano solo per una distinzione da quello di argomento religioso, possiamo subito accorgerci che le opere letterarie musicate appartengono a due differenti categorie: testi poetici e testi di carattere popolare. Se per un compositore affrontare brani scritti da poeti poteva rappresentare la continuità con il passato, musicare testi legati alla traduzione popolare era invece una novità. Le scuole nazionali della fine dell’Ottocento e la volontà di studiare organizzazioni sonore e linguistiche diverse da quelle della letteratura, avevano già avviato la strada della rivalutazione del repertorio popolare. Ma è con i primi del Novecento che l’elemento popolare viene valorizzato ed approfondito da studiosi e musicisti.
Bela Bartòk e Zoltan Kodàly affrontarono lo studio sistematico del repertorio popolare ungherese (Corpus musicae popularis hungaricae) prima come studiosi e poi interpretandolo compositivamente, ma anche Debussy e Ravel furono affascinati dalle tematiche popolari. Negli anni a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento l’interesse per le melodie ed i testi derivanti da una tradizione che non fosse quella “classica”, portò alla nascita del genere popolare. Gli stimoli per i compositori erano innumerevoli, molti ritmi e melodie avevano caratteristiche che ben si allineavano alle ricerche stilistiche di quegli anni.
Forse per queste caratteristiche musicali e forse perché i testi letterari creavano minori problematiche interpretative, l’elemento popolare ha assunto all’interno della produzione vocale dei compositori del Novecento un preciso valore. Hanno musicato testi o elaborato melodie autori come Poulenc (<<Chansons francaises>> e <<Chansons à boire>>), Schönberg (<<Drei Volkslieder>> op. 49), Ligeti (<<Idegen foldon>>, <<Bujdosò>>, <<Lakodalmas>>, <<Inaktelki nòtàk>>, <<Matraszentmrei dalok>>, ecc.), Berio (<<Folk songs>>), Britten (<<The Hollyand the Ivy>>, ecc.) e molti altri.
La produzione di musica vocale su testi letterari non è stata affatto soffocata dalla nascita di un nuovo repertorio. L’approfondimento interpretativo del testo è divenuto più libero, proprio perché il rapporto suono-parola si è distaccato da quello della musica popolare. Nell’analizzare queste partiture sono stati spesso riscontrati riferimenti con la musica madrigalistica del Rinascimento ed in molti casi sono proprio i compositori a volersi riallacciare più o meno esplicitamente a quel tipo ti espressività tipica del madrigale.
Nel ciclo <<Cries of London>> di Luciano Berio già il titolo richiama un modello compositivo dell’epoca vittoriana, i <<“Cries of London”>> erano brani nei quali gli autori cercavano di riproporre i suoni e le situazioni delle strade londinesi.
Tra la fine degli anni ottanta ed i primi anni novanta Ligeti fa riferimento alla musica rinascimentale scrivendo un ciclo di sei Madrigali (<<Nonsense madrigals>>). L’ensemble di sei voci per cui compone questi brani è formato da sole voci maschili, con l’utilizzo dei controtenori come avveniva proprio nel Cinquecento.
Anche la scelta del testo può ricollegarsi alla cultura del Cinquecento come per “Il coro delle malmaritate” e “Il coro dei malammogliati” scritti da Luigi Dallapiccola su testi di Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1642), o nel brano “a riveder le stelle” su testo di Dante interpretato dal compositore svedese Ingvar Lidholm.
Gli approfondimenti musicologici sullo stretto rapporto tra il suono e la parola tipico della musica rinascimentale, confermati dagli studi di importanti musicologi come Francesco Luisi, hanno dimostrato come l’intonazione della parola cantata fosse nel Cinquecento molto vicina allo spettro sonoro della lingua parlata. Tali studi rafforzano un’interpretazione ed un’intuizione che i compositori del Novecento avevano proposto musicalmente, dopo la lettura delle opere della musica antica. Il sogno di Janacek di riprodurre il ritmo e la successione delle altezze del linguaggio verbale, sembra realizzato nei madrigali e nelle opere per voce sola di fine Cinquecento.
Lo studio di queste composizioni ha però imposto anche un’altra visione del rapporto tra parola e musica. Nelle figure musicali e nei madrigalismi i musicisti rinascimentali cercavano un contatto più diretto tra la frase musicale ed il significato. Si evidenzia che anche per il Cinquecento la scelta tra la fedeltà al suono della parola o il tentativo di interpretazione musicale del significato, erano due strade distinte. Questo a dimostrazione che tale problematica, affrontata nel capitolo precedente, è presente nella musica vocale da molti secoli.
Oltre la parola
La valorizzazione delle potenzialità fonetiche della parola ha creato le condizioni per la nascita di opere nelle quali le voci cantano su vocali o consonanti che non propongono un testo. I suoni prodotti sono basati su scelte effettuate dal compositore e non hanno collegamenti diretti con alcun significato. In questo caso molti parametri come quello timbrico e quello formale, assumono un’importanza diversa rispetto alle opere che si basano sul contatto con un brano letterario.
Le parole, portatrici di significato, sono sostituite da colori, ritmi, fonemi che creano, forse, come si domandava Kundera un linguaggio “sovranazionale” simile alla musica. Queste composizioni perdendo il rapporto con il “che cosa si dice”, utilizzano la voce non più come punto d’unione tra due linguaggi, ma come uno strumento musicale. Questo non limita le potenzialità effettive dell’apparato vocale, ma ne annulla la caratteristica che lo contraddistingue: essere quella porta tra musica e parola.
Molti compositori nella seconda parte del Novecento sono stati affascinati dalla possibilità di poter sentire il suono del coro “puro”, cioè senza un diretto rapporto con un brano letterario. Ognuno ha risolto in maniera differente le nuove problematiche del rapporto con la forma e con il timbro.
Negli anni sessanta Gyorgy Ligeti con le sue opere <<Aventures>> e <<Nouvelles Aventures>> propone un testo composto di fonemi senza significato. Il trattamento di questo materiale sembra voler riprodurre situazioni musicali presenti in altri brani con testo letterario, come se l’assenza della parola non dovesse pregiudicare le potenzialità delle voci. Ai cantanti si uniscono qui gli strumenti, che hanno almeno per il primo brano del 1962 una presenza alternata, lasciando le voci spesso a cappella. Gli stati d’animo espressi sono molteplici e vari, gli evidenti richiami alla lingua parlata lasciano spesso spazio a nuove sonorità ed è proprio in questi casi che le voci trovano migliore fusione timbrica e formale con gli strumenti.
Negli stessi anni anche altri compositori esplorano queste nuove possibilità sonore ed i musicisti dell’Est e del Nord Europa, forti di una tradizione corale consolidata, propongono alcuni brani per coro a cappella. In <<Rondes>> dell’autore svedese Folke Rabe abbiamo un esempio di tutte quelle opere che vennero create nella volontà di rinnovare un repertorio della coralità cristallizzato alla musica liturgica, a quella popolare ed a quella operistica.
Rabe condividendo l’esperienza musicale di quegli anni, punta l’attenzione su vari aspetti compositivi tra cui quello timbrico. Lo studio sul “colore” delle vocali e delle consonanti usate in modo autonomo e scelte per le loro caratteristiche sonore, è chiarito nelle note all’esecuzione che esplicano in maniera chiara il tipo di suono che ogni lettera dovrà creare. Anche Stockhausen in maniera più sistematica ed esauriente proporrà un lavoro simile in <<Stimmung>> nel 1967, ma in quell’opera il percorso dei fonemi sarà affiancato a quello dei nomi magici e a quello dei testi.
La composizione propone altre scelte innovative per la coralità a cappella come l’utilizzo del tempo cronometrico e l’abbandono del pentagramma come luogo unico dove segnare le variazioni dell’altezza. Un’altra caratteristica che anticipa le scelte effettuate da Stockhausen in <<Stimmung>>, è la possibilità di avere più tempi metronomici nello stesso momento. Rabe pensando il brano per coro propone in quel caso la figura del coordinatore di sezione che dovrà scandire il tempo, mentre Stockausen scrivendo per sei solisti non si pone tale problematica
La parte finale del brano evidenzia il lato ironico di quest’opera che con interessanti e stravaganti collegamenti propone in un brevissimo spazio temporale tutte le esperienze della nuova musica. Il compositore sembra così cosciente della difficoltà per il pubblico di comprendere e apprezzare le nuove strade della ricerca compositiva, che mette in discussione anche la convinzione stessa degli esecutori. Infatti poco prima della fine del brano Rabe propone (ad libitum) che un basso del coro, mostrandosi irato della musica che è costretto a cantare, se ne esca velocemente fuori dal teatro. Quello di Rabe è un gesto “teatrale” che nasce da una profonda revisione e da una chiara valutazione delle esperienze artistiche di tutta l’avanguardia. Il rapporto con il pubblico, con la ricerca e con gli esecutori sono state tematiche molto controverse in tutta la seconda parte del Novecento.
Certamente di questa composizione dobbiamo cogliere tutti gli aspetti musicali e non musicali che hanno portato alla sua genesi. Alcune scelte a noi oggi incomprensibili sotto l’aspetto puramente musicale sono forse scusabili comprendendo la volontà di “svecchiamento” culturale del mondo della coralità. Grazie ad opere come questa è iniziato negli anni sessanta un processo di rinnovamento che ha portato ad affrontare la musica contemporanea, ma anche quella antica, con maggiore consapevolezza.
Altri compositori svedesi o del Nord Europa hanno affrontato la musica vocale senza parole, tra questi Einojuhani Rutavaara, Lars Edlund che negli anni ottanta cita sulla legenda del brano Scherzo proprio Rondes di Folke Rabe. Ma tra tutti Thomas Jennefelt e Anders Hillborg hanno proposto con alcuni loro lavori delle interessanti opere che presentano nuovi rapporti tra il fonema ed il suono.
Nel brano Villarosa Sarialdi di Thomas Jennefelt, l’autore come era accaduto per Ligeti in Aventures è curatore anche del testo letterario. In questo caso il compositore svedese scrive le parole dopo aver composto la musica ed a questa adatta un testo che non fa riferimento a nessuna lingua. I gruppi di sillabe possono essere chiamate parole, perché raggruppate da Jennefelt, ma non hanno nessun significato e non propongono alcun periodo letterario.
<<Ori vidi anoori vidi anori vidiri oriano avi
Anori vidia avidi ano ari.
Veni, veni arisao, sao… Sari, sarialdi, sarialdi villarosa.
Oria. Intrevi falavi no. Animalorio
Arima lotidiante forum, queria et falavino augem, locus, locus vianovo,
sulaterna vexitilla, traudicorum alustari via>> ecc.
Non vi è dubbio che la volontà di scrivere un brano che non avesse percorsi formali esterni a quelli musicali, sia stata una importante motivazione per la scelta di “applicare” il testo successivamente. A quel punto lo stesso Jennefelt dichiara di non aver potuto inserire un brano letterario preesistente, ma di averlo scritto lui stesso seguendo il percorso già tracciato dalla musica.
Viene da chiedersi se il compositore avrebbe potuto compiere un passo ancor più innovativo nell’ideazione di questa e di altre composizioni dello stesso ciclo, lasciando il brano senza parole invece di scrivere quel testo in simil-latino che pare contraddire le ricerche del percorso musicale.
Ancor più interessante sarebbe a questo punto, se i compositori si fidassero dei poeti, che l’autore della musica lasciasse l’opera senza parole e ne chiedesse ai vari scrittori un’interpretazione letteraria. Questa inversione di ruoli sarebbe una novità interessante nel panorama della musica “colta”, mentre è una costante ormai da molti anni nel mondo della musica leggera.
La paura che il significato delle parole, più che quello dei suoni, possa dare il taglio interpretativo ad un’opera è per un musicista che scrive musica vocale una costante. La consapevolezza che lo stesso brano con due testi diversi evochi opposte immagini e differenti pensieri, se ha dato ai compositori del passato la possibilità di “riciclare” brani in varie occasioni, pone l’artista moderno di fronte alla propria debolezza comunicativa.
Quando il fonema non è più portatore di significato deve divenire “più suono” ed in quel caso il compositore ha l'obbligo di chiarire che tipo di suono dovrà essere prodotto, come abbiamo già notato nei brani di Rabe e di Stockhausen. Nel momento in cui un musicista non fa riferimento ad una certa lingua, è il caso di <<Villarosa Sarialdi>>, il colore che certe vocali o consonanti potranno avere non è chiarito dal contesto linguistico. Per cui il compositore dovrà specificare su ogni lettera, il tipo di suono che desidera ottenere ed allora la prima O del primo accordo, sarà aperta o chiusa, scura o chiara.
Quella che abbiamo notato come una mancanza dell’autore, cioè l’assenza di riferimenti fonetici che chiariscano le modalità di emissione del testo, è invece molto curata in un’altra importantissima opera per coro a cappella. Il valore di questo brano nasce proprio dallo studio approfondito che il compositore Handres Hilborg ha compiuto sulle caratteristiche di ogni vocale. Il brano scritto nel 1983 chiarisce già dal titolo la volontà del compositore, <<muo……oum>> è infatti un percorso fonetico dalla vocale U con prevalenza di armonici bassi, alla vocale I che invece ha una prevalenza di armonici alti. Come in <<Stimmung>> il gioco timbrico sugli armonici viene utilizzato in maniera espressiva e diventa fondamentale la chiara pronuncia delle vocali. Anche la staticità armonica sembra riproporre un percorso simile a quello del brano di Stockhausen e nasce certamente dalla volontà di rendere percepibili gli armonici prodotti dalle voci, che essendo dinamicamente più deboli dei suoni fondamentali sarebbero soffocati all’interno di un percorso armonico troppo vario.
Il brano inizia sul SI bemolle cantato dalle quattro parti dei soprani mentre le altre sezioni, sempre divise in quattro parti, iniziano sulla loro nota più grave il gioco timbrico del graduale passaggio dalla vocale U fino alla I e viceversa. La nota “grave” richiesta dal compositore sarà scelta singolarmente da ogni cantante secondo le caratteristiche della propria voce, in modo da mettere in evidenza con maggiore facilità i suoni armonici che il passaggio da una vocale all’altra produce. Ogni voce procederà nelle mutazioni delle vocali sempre con lo stesso schema, quello evidenziato già dal titolo, ma partendo in maniera sfalsata questi armonici non verranno mai sovrapposti ad altri simili. Questa scelta crea una staticità dell’aspetto timbrico che nasce dalla organizzazione della varietà e che si alterna, si sovrappone e si scontra con la staticità armonica e con quella ritmica. La novità armonica all’interno di una sezione viene sempre esposta inizialmente tramite una nota lunga con la M e poi ribattuta in quartine con la sillaba “la”. Questa omogeneità dell’articolazione più veloce sempre cantata sulla vocale A, va a sua volta a sovrapporsi o alternarsi con il percorso del <<muo……oum>> che è più statico ritmicamente, ma timbricamente più vario.
Nella parte finale del brano la staticità sembra rompersi e all’interno dei tre percorsi ritmico, armonico e timbrico vengono presentate alcune varianti. Il ritmo delle quartine è affiancato e sostituito dalle quintine e dalle terzine, il percorso diatonico è ampliato con la presenza dei quarti di tono e quello timbrico viene interrotto e variato nella successione delle vocali. A questo punto un nuovo suono, il fischio, viene a polarizzare l’attenzione timbrica. Già presentato anche se solo con una breve apparizione alle battute 36-39 il fischio giunge ad interrompere la circolarità della forma, che il brano sembra esprimere con le continue sovrapposizioni di elementi musicali statici. Questo timbro che nasce come la voce dalla bocca, si impone unificando i suoni dei contralti (tranne i contralti quarti) e dei tenori su un SI naturale acuto, mentre i bassi divisi ad otto parti formano un cluster nel registro grave.
Le stesse lente modulazione tra le vocali e la M le ritroviamo anche nel brano Oremus dell’estone Urmas Sisask, ma in questo caso la ciclicità delle modulazioni vocaliche non viene sospesa da un elemento esterno come il fischio. Le cinque parti di cui si compone Oremus hanno un progetto formale più semplice del brano di Hilborg, perché i percorsi che il compositore estone propone sono diversi. L’armonia e la melodia sono basate su cinque suoni (FA# - SOL# - LA - DO# - RE) che vengono a formare agglomerati sempre nuovi, ma sempre simili e riconoscibili. Il ritmo di questi passaggi è oltremodo semplice, infatti possiamo avere due sole possibilità all’interno dell’impostazione in due quarti, il battere o il levare.
Ma questa estrema semplificazione di alcune importanti caratteristiche della composizione musicale a cosa vuole giungere?
Probabilmente, pur non volendo appesantire di significato il titolo della composizione, il brano pur essendo privo di un testo che richiami le Sacre Scritture vuole proporre un’idea di musica meditativa e di preghiera. Sisask opta per la valorizzazione dell’intensità e del scelta della tessitura vocale tramite la staticità armonico-ritmica, lo stesso procedimento proposto da Stockhausen in <<Stimmung>> raggiunto qui tramite la semplificazione del materiale. Non sarà difficile trovare altre similitudini tra i due brani, come riconoscere che la struttura armonica (verticale) e quella orizzontale siano molto simili, perché basate entrambe su cinque note.
In Stimmung In Oremus
Sib - DO - RE - FA – Lab FA# - SOL# - LA - DO# - RE
La struttura formale delle due composizioni si differenzia in maniera sensibile, perché Stockhausen radicalizza l’idea di staticità creando un continum unico, che viene articolato al suo interno da vari elementi (nomi magici, ritmi delle mutazioni vocaliche, testi). Sisask invece divide il brano in cinque parti che propongono un percorso formale molto chiaro che possiamo riassumere in questo schema:
Timbro: Dinamica: Schema ritmico ripetuto Registro vocale:
I PARTE
consonante M pp cambio armonico ogni grave
II PARTE
mutazioni delle vocali. Dal p crescendo al mf + + + + medio
III PARTE
mutazioni delle vocali p + + + + + medio
IV PARTE
mutazioni delle vocali. Dal p crescendo al ff + + + + dal grave all’acuto
V PARTE
consonante M pp + + + + + grave
Anche in Oremus il compositore, come abbiamo già notato per il brano di Hilborg, pone la consonante M all’inizio ed alla fine del percorso di mutazione delle vocali. Ma in questo caso essendo il brano scritto per coro a quattro voci miste, la successione degli armonici prodotti con il movimento da una vocale all’altra non sarà percepibile, perché ogni corista sarà libero di “gestire” il proprio percorso di mutazione timbrica.
Questa libertà non deve avere però soddisfatto l’autore che in esecuzioni recenti ha proposto dei cambiamenti inserendo delle vocali precise in momenti specifici del brano.
Una somiglianza con la tecnica della libera mutazione vocalica usata da Sisask in Oremus possiamo riscontrarla anche in un autore italiano molto attento alla produzione ed all’evoluzione della coralità. Romano Pezzati nei suoi ultimi brani per coro a cappella lascia i cantanti liberi di vocalizzare e non utilizza nessun testo, né propone alcun percorso timbrico delle vocali. La libertà dei singoli coristi non crea, come si potrebbe inizialmente pensare, una disomogeneità sonora della composizione, perché come accadeva in Sisask, i brani sono pensati per coro e quindi si prevede che il numero delle voci che cantano la stessa parte, riesca ad amalgamare il timbro della sezione. Inoltre quello del colore vocale è l’unico elemento lasciato come variabile, mentre gli altri parametri compositivi sono ben precisati nelle partiture. Il brano “Stella Matutina” per doppio coro del 1992, ha un percorso formale molto preciso che viene realizzato tramite la contrappuntistica del canone.
Nel 1996 con la composizione “Stella Nova” per sei voci, Pezzati pur lasciando sempre libero l’esecutore di vocalizzare, propone delle scelte diverse. Le sei parti due soprani, due contralti, tenore e basso sono scritte sfruttando il registro acuto della voce, per cui l’allargamento dello spazio armonico viene prevalentemente ad avere una direzione. La tecnica del canone è sostituita da un’imitazione libera tra le voci che lascia maggiore libertà di intensificazione delle figure e delle dinamiche. Anche il tempo non è costante come nel brano “Stella Matutina” e si passa da = 60 (Tempo I) a = = + di 60 (Tempo II) tornando poi al Tempo I, fino ad arrivare = 90 (Tempo III) che rallenterà fino al Tempo I = 60.
Nelle due composizioni Pezzati è consapevole della volontà di lasciare libertà agli esecutori all’interno di un’organizzazione formale molto precisa. Punto fermo delle due opere è la mancanza di un testo e la libera vocalizzazione dei coristi..
Lo stesso tipo di procedimento compositivo che unisce la tecnica dell’imitazione di memoria fiamminga e la ricerca timbrica delle ultime generazioni, che utilizza sovente la figura ritmica delle acciaccature alternate a note lunghe, possiamo ritrovarlo in un altro brano che Romano Pezzati scrisse negli anni settanta.
Est silentium in caelo per coro maschile ad otto parti è scritto senza un testo letterario anche se i riferimenti poetici sono innumerevoli data la dedica del brano “In memoriam Pablo Neruda”. Le voci cantano su alcune sillabe o vocali scelte dal compositore: IU – IUM - I - O – E’ – EN – A – O – IO ecc. Analizzando tra queste, quelle utilizzate con maggiore frequenza, si può ricostruire parte della struttura sillabica del brano Est sIlENtIUM In caelO, in particolare si possono riconoscere le vocali ed i gruppi di vocali. Come abbiamo già notato nel brano di Hilborg, il titolo diviene la composizione stessa, perché i suoni che verranno cantati sono già presenti nell’intestazione. Tale caratteristica oltre a dare unità “metafisica” all’opera, rende unitario il percorso timbrico e spesso anche quello formale. In questi casi il rapporto tra il “come” (suono) ed il “che cosa” (significato) si fa più stretto e forte.
L’opera di Pezzati è dedicata a Pablo Neruda di cui il compositore riporta al termine del brano alcuni versi tratti da “Fine del mondo” e “Il canto generale”. I testi riportati evocano varie immagini sul silenzio e chiariscono in maniera illuminante la volontà espressiva del compositore. Pezzati fa terminare il brano con un lunghissimo accordo a bocca chiusa, sul quale si inserisce la parte dei baritoni primi ad intonare le vocali I – E – O (In cAElO). Probabilmente pur non utilizzando il testo di Neruda, ma lasciandolo al fianco della musica come elemento germinante la composizione, Pezzati vuole andare oltre le parole e non può quindi musicarle, deve andare verso il senso intimo del testo del poeta che scrive “ho molto da tacere – datemi il silenzio, l’acqua, la speranza”.